All’interno del padiglione espositivo virtuale del MU.DE.FRI – Museo del Design del Friuli Venezia Giulia, in occasione della Udine Design Week, il 2 marzo è stata inaugurata la mostra “Totem Semplicità Complesse” accessibile in modalità virtuale sino al 10 maggio.
Parliamo di quattro installazioni, totem dalla “semplicità complessa”, visibili attraverso l’ausilio di QR code, posizionati in luoghi simbolo della città di Udine: da Piazza Venerio, a Via Mercato Vecchio, sino a Via Canciani e Via Manin.
L’idea nasce dalla dicotomia pienezza-trasparenza: due dimensioni diverse, contrapposte, ma comunque necessarie l’una all’altra, unite entrambe dall’elemento tecnologico.
Sebbene durante quest’anno ci siamo ritrovati a utilizzare la tecnologia più che per volontà per costrizione (arrivando quasi a respingerla e a mal sopportarla) nel contempo abbiamo imparato a riconoscere molti dei suoi lati positivi. Per certi versi, l’ausilio tecnologico si è dimostrato un ancoraggio indispensabile che ha permesso la fruizione di svariati contenuti, culturali e non, e la possibilità di continuare a lavorare da remoto, di mandare avanti abitudini e attività che in passato eravamo soliti vivere diversamente.
Non a caso del buon uso della tecnologia, troviamo l’esempio vincente del Mu.De.Fri e della Udine Design Week che per questo 2021 permette di vivere il design in modo diverso, in una dimensione più astratta e intangibile ma comunque percepibile.
Una rivendicazione vincente che la Udine Design Week fa propria, per la quale la tecnologia anziché allontanare, deve unire, avvicinare, non solo persone ma anche dimensioni e spazi urbani. Questo, in definitiva, appare l’elemento di raccordo che unisce il padiglione espositivo virtuale alla progettazione di totem immaginari sparsi per il centro di Udine.
Un elemento identificativo (un codice QR appunto) che permette a chiunque di immergersi in una mostra virtuale a cielo aperto, con la presenza di installazioni sotto forma di modelli in scala, rapportate all’ambiente urbano (una volta letto il codice, sarà il proprio dispositivo a rendere concreto e visibile agli occhi un oggetto di design vero e proprio).
Quattro le coppie di progettisti dietro la realizzazione delle installazioni ed un’unica iniziativa capace di coniugare la tecnologia agli spazi urbani, privati mai come quest’anno di quel rumore quasi confuso della città. Spazi che sino ad ora sono stati silenziati e che, attraverso i totem, si animano in una dimensione alternativa da vivere all’interno degli stessi attraverso la coniugazione dell’espressione artistica con la dimensione della realtà aumentata.
In questo anno e mezzo, segnato dalla pandemia e dall’impossibilità di movimento ci siamo come dimenticati della dimensione urbana, dei rumori della città, dell’incedere dei passanti e del vociare di sottofondo. Metaforicamente è come se al suono della città se ne fosse contrapposto uno sordo, silenziato dalle saracinesche abbassate, dalle vie del centro vuote, da passaggio sì e no furtivo di pochi pedoni.
Ai progettisti si chiede allora di colmare questa assenza e di permettere di vivere egualmente la città estendendo il concetto stesso di realtà urbana: quello che non possiamo cogliere con gli occhi si presenta a noi in forme diverse, che la tecnologia rende possibile divenendo una capacità sensoriale in più. Un sesto senso che viene incontro al fruitore in un processo di ricezione dell’espressione artistica.
A questi totem dedicheremo quattro interviste per ciascuna delle coppie di progettisti a cui abbiamo rivolto delle domande per comprenderne ragioni, idee, stimoli e visioni future e per guidarci nel loro personale processo creativo.
CONTROCANTO è il primo totem di cui parleremo. Elisabetta Bruni e Mara Marton sono le progettiste dietro l’ideazione dello stesso. Entrambe partecipano da molti anni alla Udine Design Week in qualità di designer e, anche quest’anno, hanno deciso di rinnovare la loro adesione con l’installazione intitolata “CONTROCANTO” nei pressi di piazza Venerio.
CONTROCANTO, titolo che richiama ad un qualcosa in opposizione al rumore, fa del silenzio un elemento comunicativo e sensoriale. L’installazione è quindi posizionata in piazza Venerio, a due passi dalla Chiesa di San Francesco, luogo storico della città e prima ancora spazio concreto e tangibile, scelto come sfondo per l’installazione.
Il silenzio della piazza, la sua estensione, fanno da cornice al totem che rievoca il tema dell’abitazione. Ed è dalla dalla coniugazione fra tangibile e intangibile che si sottolinea con forza il nucleo concettuale della mostra: la contrapposizione e nel contempo l’unione tra astrattezza a concretezza. Il totem si appropria della piazza che lo avvolge, trasformandosi in uno spazio che ingloba, contiene, quasi fosse un nucleo abitativo.
Per tradurre il significato concettuale dell’opera, abbiamo domandato ad Elisabetta e Mara di raccontarci qualcosa in più sul loro progetto. Ecco quello che ci hanno raccontato.
Perché avete pensato di collocare in quest’area della città la vostra installazione? Vi è una ragione specifica magari dettata dalla storia del luogo, dall’importanza che ha o ha avuto in passato per il centro udinese?
Quando ci hanno proposto di realizzare un totem per la UDW (ndr. Udine Design Week) non avevamo un’idea precisa della scala e dell’aspetto che avrebbe assunto il nostro progetto, ma fin da subito sapevamo di voler realizzare qualcosa che si collegasse intrinsecamente alla storia della città e che in qualche modo ne portasse a galla una vicenda.
Abbiamo scelto Piazza G. Venerio: è qui che sorgeva Palazzo Savorgnan, dimora del nobile Antonio Savorgnan che nel 1511 fomentò la rivolta del “crudele giovedì grasso”, grazie alla quale eliminò gran parte della nobiltà friulana a lui avversaria, per accrescere il suo controllo sulla città. L’anno successivo fu assassinato da una congiura, e nel 1549 la Repubblica di Venezia rase al suolo il suo palazzo e ne lasciò a vista le macerie come ammonimento per il popolo. Per questa ragione per lungo tempo fu detta “Piazza della rovina”. L’attuale pavimentazione racconta proprio questa vicenda: la struttura di Palazzo Savorgnan si manifesta attraverso una griglia nera che si interseca al tracciato regolare lapideo chiaro della piazza. Da qui sorge anche il titolo della nostra opera. Inoltre, Piazza Venerio è uno spazio poco frequentato e vissuto all’interno della città. La nostra impressione è che i cittadini non la sentano molto propria e la percepiscano come un “vuoto urbano”. Abbiamo volutamente scelto per la nostra installazione questo luogo così centrale ma spesso tralasciato, con l’intenzione di valorizzarlo e dargli una nuova veste virtuale.
Raccontateci il concept dell’installazione. Da dove nasce l’idea? Come avete ragionato affinché la dimensione astratta si coniugasse a quella urbana in funzione di un inserimento conforme al contesto?
Tutto è partito dal voler evocare la dimora Savorgnan. Sappiamo che era composta da numerosi vani disposti attorno ad un cortile. Abbiamo voluto sintetizzare la sua articolazione in un’unica forma che fosse al contempo cortile e vano abitabile; una sorta di unità “loggiata” separata al centro da un solaio. Dal punto di vista compositivo la forma dell’elemento è regolata da una forte simmetria dove una successione di archi si specchiano attorno ad un solaio intermedio, virtuale separazione tra passato e presente. In questo modo la “storia ipogea” si sarebbe posta in dialogo con la “storia di superficie” generando il Totem; il richiamo al passato ci ha permesso di dargli forma, il contesto presente di dargli materia.
Volevamo riallacciarci al significato di “casa” e a quello di “corte” e definire uno spazio che fosse al contempo un luogo protetto, quasi intimo, ma insieme un luogo di convivialità per gli abitanti di Udine. Soprattutto oggi, nel contesto odierno, ci è sembrato importante portare alla luce questo duplice valore.
Nella fase di ideazione e progettazione del totem, e ragionando in prospettiva futura, avete pensato alla possibilità che l’installazione possa realizzarsi concretamente? Richiederebbe degli accorgimenti per adattarsi al centro urbano?
Sapevamo, fin dalle prime fasi, che l’elemento sarebbe stato comunicato principalmente virtualmente, data l’attuale situazione pandemica, ma la nostra formazione ci invita spesso alla concretezza e alla matericità a restituire un’opera tangibile, abitabile.
Abbiamo concepito, quindi, un cubo di 6x6m alto 5,50m, che fungesse da spazio di incontro, di gioco, di scambio e che potesse coniugare la scala urbana a quella umana. Il design ci ha indirizzato a privilegiare forme che potessero essere funzionali e pratiche oltre che suggestive. Da qui la scelta di partizioni “aperte” che non necessitano di essere fruite tramite il tatto. Il nostro totem ricerca l’interazione da parte dei cittadini, ma non attraverso una vera e propria manipolazione, come accade in molti progetti di stampo partecipativo, bensì grazie alla creazione di un nuovo “micro paesaggio” e attraverso la possibilità di essere attraversato e diventare luogo di sosta.
Saremmo davvero entusiaste se Controcanto venisse realizzato concretamente. Sarebbe molto interessante vedere la città popolarsi di tante installazioni temporanee. Ci auguriamo che, comunque, il nostro lavoro possa essere un piccolo stimolo per l’immaginazione e la curiosità dei cittadini, siano essi anziani, adulti o bambini.
Sempre ragionando sulla possibile realizzazione dell’oggetto, quali materiali utilizzereste? Come ragionereste in termini di rapporto coi cittadini? Vi immaginate una sua funzione particolare oltre a quella estetica?
Fin dalle prime bozze ci siamo orientate verso il policarbonato. Immaginavamo qualcosa di colorato, leggero, traslucido. Un materiale che emergesse distintamente dal contesto storico e che potesse, di sera, fungere da “lanterna urbana” grazie ai LED posizionati all’interno delle sue partizioni cave. Abbiamo combinato delle forme classiche ad un materiale contemporaneo ricercando un effetto quasi ludico.
L’inserimento urbano implica un’attenta riflessione e conoscenza non solo del contesto ma anche delle dinamiche che intercorrono tra abitante e tessuto urbano, nella profonda convinzione che la città sia specchio di una comunità.
Non volevamo definire nè un oggetto di arredo urbano, nè tantomeno un monumento, quanto ideare un elemento a servizio del cittadino dalle forme sintetiche. Il Totem infatti, è concepito per poter accogliere le persone invitandole a fruire delle partizioni colorate analogamente a quanto fa un bambino giocando con un caleidoscopio; la semitrasparenza del policarbonato genera, infatti, inediti risultati perchè cangiante rispetto alla luce che lo circonda.
Il solaio intermedio viene posizionato a tre metri d’altezza definendo uno spazio protetto riparato e a misura d’uomo; un rifugio.
Abbiamo ipotizzato un coinvolgimento attivo da parte del cittadino anche nella fase preliminare alla realizzazione, affidandogli il duplice ruolo di spettatore e “attore attivo”. Controcanto è un elemento concepito per avere un margine di flessibilità nella sua resa estetica; presuppone infatti una possibile personalizzazione nei colori non solo del policarbonato ma anche dell’illuminazione interna. La scelta dei colori, ad esempio, potrebbe essere occasione di una prima partecipazione da parte dei cittadini.
Il supporto della tecnologia ha sicuramente mutato l’esperienza di fruizione rispetto a mostre ed eventi culturali. Lo abbiamo visto con questa mostra “Semplicità Complesse” ma numerosi sono gli esempi in giro per il mondo. Come pensate che la tecnologia possa modificare il modo di ideare e nel contempo di fruire di esperienze culturali di questo tipo?
Pensiamo che la tecnologia sia un’opportunità, un’ulteriore modalità comunicativa messa a disposizione del progettista e del visitatore. Permette di svincolare l’opera da potenziali problematiche legate a parametri fisici e di proiettare la progettazione verso una dimensione più utopica, immaginativa. Al contempo può generare una certa distanza perché non tutto il pubblico è abituato o ha i mezzi per accedere a questa modalità di fruizione. La tecnologia è uno strumento in continua evoluzione e ci offre sempre nuovi spunti e occasioni di crescita. In merito, crediamo che sia necessario anche per i progettisti ricercare nuove modalità di concepire l’opera e di fruirne, dal momento che quest’ultima può essere ora comunicata in maniera più repentina e potenzialmente raggiungere un più vasto pubblico. Ci auguriamo comunque che d’ora in avanti l’oggetto virtuale non venga considerato necessariamente come il fine ultimo dell’esperienza di fruizione, ma come uno strumento aggiuntivo dinamico e vivace in grado di dare un ulteriore ed inedito punto di vista dell’opera.