La tragedia di Shakespeare “Re Lear”, adattata da Giorgio Barberio Corsetti, è andata in scena al Giovanni da Udine il 29, 30 e 31 gennaio 2018.
Re Lear (Ennio Fantastichini) è ancora vispo e dissoluto, ma ormai ottuagenario ed è quindi deciso a trasmettere il suo patrimonio alle sue tre figlie, alle quali viene richiesto di dimostrare il proprio affetto per meritare l’eredità; mentre Goneril (Francesca Ciocchetti) e Regan (Sara Putignano) manifestano uno stucchevole amore per il padre, Cordelia (Alice Giroldini) parla sinceramente, rivelando la genuinità e la autenticità dei propri sentimenti con parole commisurate a una relazione improntata sul rispetto e la devozione nei confronti del proprio padre. La sobrietà di tali parole, tuttavia cozza contro la sfarzosità a cui è abituato il sovrano, il quale disereda la figlia, accusandola di non aver mostrato un affetto degno della sua altezza. Così Cordelia è costretta a riparare in Francia, mentre le altre due figlie pregustano la imminente eredità, ma il re perde il senno, gettando Regan e Goneril in una angosciosa attesa della sua morte prima che, a causa della dissennatezza, possa disattendere la promessa della eredità; per non rischiare di perderla, le due figlie ordiscono una congiura nei confronti del padre. In questo scenario la follia presenta una duplice fisionomia: da un versante è la necessaria conseguenza del decadimento fisico del re che, accompagnato da un folle “naturale”:“il Matto” (Andrea Di Casa), manifesta comportamenti rasentanti la infantilità; d’altro canto, invece, la follia si attesta come esasperazione della brama di potere e, in tale senso, sono le due figlie ad essere folli. La manifestazione della pazzia è stata resa magnificamente dagli attori che, con visi contorti, stridii, urla, sghignazzi e risate agghiaccianti (meritano qui l’attenzione Francesco Villano, Gabriele Portoghese e Andrea Di Casa) hanno disorientato la ragione degli spettatori. Nell’epilogo però solo la pazzia del sovrano ritorna entro i binari della moderazione, per cedere il posto allo sconforto e alla disperazione di fronte al desolante scenario dominato dalla morte delle tre figlie.
La tragedia è stata adattata alla contemporaneità, mediante l’inserimento di abiti che richiamano l’eleganza “borghese” e attraverso l’inserimento di oggetti tipicamente contemporanei come la videocamera: testimone della baldoria nella corte regia.
Per quanto riguarda la “cornice” della rappresentazione, ossia le tecniche audio e visive adoperate, è stato spesso utilizzato un telo per la proiezione di diverse immagini, ma una tra queste ha impattato maggiormente sul pubblico, perché ha conferito un tono volgare allo spettacolo; l’immagine in causa vede Goneril e Regan con le gambe divaricate in uno sfondo fiammeggiante e, nella zona di divaricazione, il telo è stato un po’ tagliato verticalmente per costituire un varco “vaginale” per i personaggi. In una visione di insieme la trovata risulta di pessimo gusto, ma si badi, non perché deviasse dalla morale, bensì perché rivela una distorsione del corpo della donna; in altre parole la fisicità della donna, per la ennesima volta, è stata utilizzata, come accade nelle rappresentazioni cinematografiche che sbancano al botteghino, come un appiglio per marcare più a fondo la negatività rappresentata dai personaggi femminili. Ciò nonostante, l’adattamento del regista si rivela pronto ad abbracciare diverse generazioni di spettatori e, inoltre, dimostra che il teatro non è un antesignano delle moderne sale cinematografiche, ma è una espressione parallela e concorrente alla settima arte e, in alcuni casi, come dimostra per l’appunto Corsetti, in stretta relazione.
Articolo di Gabriele Duria
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