Manca meno di un mese alla conclusione della mostra monografica su Elliott Erwitt a Pordenone e ci sono molte valide ragioni per non perdere l’occasione di andarci. Di Elliott Erwitt è stato detto molto, da tanti, quasi tutti sicuramente più validi di me. Quindi sulla poetica delle immagini non mi soffermerò più di tanto. Ma quello che questa mostra mi spinge a scrivere parte da un altro punto di vista: la cultura della mostra. Quando decidiamo di andare a vedere una mostra, sì, spesso siamo spinti dall’autore o dalla tematica che vengono proposte. Arriviamo, girovaghiamo, pause ad effetto, piccoli sussulti di stupore, qualche momento piatto e alla fine tiriamo le somme su una scala da 1 a 10 di bellezza (o intensità). Dell’autore abbiamo letto una breve spiega bibliografica, del concept della mostra – letto in entrata – abbiamo dimenticato e mal assimilato la maggior parte del significato. Ci dimentichiamo fin troppo spesso che dietro a quelle immagini appese ad un muro c’è un pensiero. Dell’autore? Sì, certo. Ma anche, e in quel contesto soprattutto, di un curatore. Una figura per molto tempo mitologica (ahimé soprattutto qua in Friuli Venezia Giulia), che a tratti ricompare in fugaci apparizione come il mostro di Loch Ness. Beh, qui l’apparizione non è fugace. La poetica di Erwitt si può – semplicisticamente ma non banalmente – riassumere in questa sua frase: “La fotografia è tutta qui: far vedere a un’altra persona quel che non può vedere perché è lontana, o distratta, mentre tu invece sei stato fortunato e hai visto.
E questo Alessandra Mauro, curatrice della mostra, l’ha fatto suo, assimilato, interiorizzato e riportato a fruizione con un approccio didattico dell’arte per adulti che ha una dolcezza materna: sia nel suo accompagnare alla lettura di immagini che alle volte vediamo fin troppo divise dal mondo, quasi come se quella cornice attorno fosse diventata una prigione, sia nel lanciarti quella ciabatta per richiamarti all’attenzione quando rischi di scivolare troppo facilmente sulle cose. Sulla vita. Perché di vita parla Erwitt. La sua, la tua, la mia. Prendere immagini iconiche e riuscire a ridare al fruitore un’esperienza non scontata, non è una cosa da poco. Gli accostamenti raccontano storie senza tempo, dentro al tempo. Nixon e Jackie Kennedy uno accanto all’altra quanti significati possono raccogliere in ogni decennio della nostra storia da quello scatto fino ad ora? Il femminile, i vizi capitali, i divari generazionali, gli orridi sociali, il non sense che caratterizza l’essere umano e i suoi significati imperituri. Come si può accompagnare in un percorso del genere senza entrare a gamba troppo tesa nei pensieri e nell’esperienza emotiva delle opere? Così, ad esempio.
Fotografia di Giulia Trevisan
©Magnum Photos
Tre foto che non fanno parte di una serie, slegate tra loro nel tempo e nello spazio, ma unite dal filo rosso di uno sguardo sul mondo così unico che pare abbia trovato un wormhole emozionale.
A sinistra, perché noi cominciamo da lì a leggere (e quindi, istintivamente, a guardare le immagini) un bimbo sul retro di un treno / metropolitana che guarda i binari su cui è appena passato. Al centro, un uomo e una donna nella loro casa, in un momento di intimità che sembra spontaneo. Uno di quei momenti in cui stai vivendo il tuo respiro e la tua vita nel qui ed ora, senza passato né futuro.
A destra una ragazza giovane che guarda fuori dalla prigione di quella cornice, verso una luce che pare proprio parli di speranze, obiettivi, intenzioni.
Tre momenti totalmente umani, universali. Un accompagnamento alla lettura visiva, una frase che parte dal passato e arriva fino al futuro, coniugata didascalicamente ma efficacemente.
Una storia che non c’è, realmente, costruita a puntino dalla curatrice (con cura, appunto), ma che è esattamente il modo in cui Erwitt osserva il mondo. E se Elliott Erwitt è il mago che riesce a raccogliere quegli attimi di vita prima che scompaiano, prima che non vengano visti, meditati e celebrati a Pordenone questo possiamo godercelo in una passeggiata tra mente ed emozioni, tra storia e perpetuo presente.
Non è scontato che da una mostra si possa imparare qualcosa. Qui si reimpara a guardare alle cose, immersi in una semiologia visiva dolce a quattro mani.
©Magnum Photos