Astronauti, zombie, apocalissi e molto altro. Il Trieste Science+Fiction Festival ha accolto anche quest anno opere cinematografiche fantascientifiche, horror e fantasy presentate nel 2017 in tutto il mondo. Pellicole che purtroppo non vengono spesso distribuite nelle sale italiane, ma che abbiamo avuto l’occasione di vedere sotto la volta stellata del Politeama Rossetti.
Oggi vi parliamo di due dei film premiati: “The Man with the Magic Box” di Bodo Kox – vincitore dell’Asteroide Award 2017, contest riservato ai registi emergenti – e “Salyut-7” di Klim Shipenko – acclamato dal pubblico in sala e che quindi si è meritato l’Audience Award.
“The Man with the Magic Box” narra una storia d’amore in una Varsavia del futuro che ricorda “1984”: chip sottopelle, polizia onnisciente e annientamento dell’identità personale. Lei, Goria, è un’impiegata di una grande azienda; lui, Adam, è l’addetto alla pulizia degli uffici di Goria e ha un passato misterioso. La storia si sviluppa seguendo i sentimenti che nascono tra i due, e le scoperte di Adam riguardanti delle vecchie radio in grado di farlo viaggiare nel tempo.
Il ritmo del film scorre sapientemente e il susseguirsi degli eventi è facilmente comprensibile, qualità non scontata vista l’originalità della storia. I dialoghi e la recitazione delineano dei personaggi realistici, le ambientazioni descrivono l’universo distopico con grandissimo fascino. Perchè quello per cui vi consigliamo di vedere “The Man with the Magic Box” è soprattutto la grande bellezza delle immagini. I colori, i volti, i costumi, le location: tutto è molto curato e esteticamente appagante.
Quello che invece ci ha lasciati perplessi è la storia, i cui vari elementi sembrano essere stati definiti quel poco che bastava a scrivere la traccia del film. Un peccato visto che, sia il tema della distopia sia quello del viaggio del tempo, aumentano d’interesse quando dopo l’intuizione diventano una teoria.
“Salyut-7” è invece ispirato a una storia vera. Nel 1985 l’omonima stazione spaziale sovietica smette di inviare segnali alla Terra. Vengono mandati due astronauti a ripararla, i primi – e finora gli unici – ad aver attraccato un veicolo fuori controllo nello spazio. Questa e innumerevoli altre difficoltà mettono alla prova l’intelligenza e il morale dell’equipaggio in orbita e di terra.
A rendere interessante questo film è la verosimiglianza delle vicende raccontate. L’Agenzia spaziale russa ha collaborato ampiamente nella scrittura della trama, fornendo la documentazione dei fatti avvenuti non solo durante la spedizione Soyuz T-13 – quella che ha rimesso in sesto la stazione spaziale dopo il black-out – ma anche durante altre missioni di quegli anni, che tutti uniti hanno preso forma nel film di Shipenko.
La storia è inserita nel contesto della corsa allo spazio durante gli anni della Guerra Fredda.
Non bisogna meravigliarsi se il pubblico russo l’ha accolto come un film patriottico, pur non essendo stato concepito come tale. È un film che fa leva su sentimenti facili, grazie a una serie di personaggi da clichè: mogli innamoratissime e politici spregiudicati, amici leali, colleghi d’oltreoceano capaci nonastante tutto di grande rispetto reciproco. Un aspetto questo che semplifica la narrazione, rendendola a tratti piatta e prevedibile. Ma raccontare al grande pubblico la storia dell’ingegneria aerospaziale, i suoi sforzi e scommesse, l’infinita passione e tenacità degli uomini e delle donne che hanno vissuto tutto questo, necessita di compromessi. E a conti fatti, questo rimane un ottimo film.