Ancora pochi giorni per visitare la mostra presentata dall’Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli-Venezia Giulia: settanta autoritratti, in bianco e nero e a colori ci immergono nella vita di Vivian Maier.
La curatrice Anne Morin di Chroma photography, Madrid, realizza e organizza, in collaborazione con John Maloof Collection e Howard Greenberg di New York, il percorso che ci permette di capire come l’artista si vedeva e come percepiva il mondo che la circondava.
La serie di autoritratti è una continua affermazione dell’artista e della sua presenza in quel luogo ed in quel momento, in questo mondo; ciò è forse conseguenza dell’invisibilità di cui Vivian si sentiva oggetto a causa della sua estrazione sociale.
“Ciò che sorprende nella storia di Vivian Maier è come questa donna da una parte accetti la sua condizione di bambinaia e, allo stesso tempo, trovi invece la sua libertà nell’essere qualcun altro, la fotografa di strada Vivian Maier; questo dualismo, generato dallo scontro tra le due anime, ha dato vita a una vicenda senza paragoni nella storia della fotografia, che in questa mostra viene raccontata per la prima volta in Italia attraverso i ritratti dell’autrice” afferma la curatrice Anne Morin.
L’artista ha lavorato per circa quarant’anni come bambinaia, tra New York e Chicago, nel tempo libero fotografava molto, moltissimo, scattava per strada, in metro, al parco ed uno era l’elemento sempre ricorrente: l’ombra. Così come nei lavori di Lee Friedlander l’ombra è il duplicato del corpo in negativo, un “ricavato della realtà” che fa vedere ciò che è al di fuori dell’inquadratura.
L’esposizione ripercorre la vita di una fotografa che mai si è considerata tale e fino a tempi recenti era completamente sconosciuta; i suoi lavori sono rimasti celati sino a quando un numero spropositato di negativi, super 8 e 16mm film, circa centocinquantamila, sono stati comprati ad un’asta da John Maloof che ha fatto conoscere al mondo la storia di Vivian.
Inediti sono gli scatti a colori. La Maier inizia a lavorare con una Leica negli anni Settanta, si trattava di una macchina leggera e facilmente trasportabile e le riprese erano fatte a livello dell’occhio a differenza della Rolliflex che utilizzava in precedenza. Questo passaggio ad un diverso apparecchio mise la fotografa in diretto contatto con ciò che la circondava, questa caratteristica nell’approccio al mondo lo ritroviamo anche nei super 8. Riusciamo a seguire perfettamente lo sguardo della donna: osserva sempre in maniera discreta, quasi da lontano, seguiva un soggetto ed avvicinava la lente senza così doversi avvicinare realmente all’oggetto della sua curiosità. Quindi possiamo senza dubbio affermare che il suo approccio cinematografico è strettamente legato al suo linguaggio da fotografa.
Il percorso espositivo si conclude con quello che è forse il pezzo più interessante per lo spettatore: si tratta del film-documentario “Finding Vivian Maier” che è stato realizzato dal giovane regista che è anche la persona a cui si deve la scoperta di Vivian Maier: John Maloof.
Fu lui nel 2007 ad acquistare in un mercatino di Chicago la scatola di negativi di cui non si conosceva né la provenienza e né l’autore. Questa scoperta ha determinato una caccia all’artista che si concluse purtroppo solo dopo la morte della fotografa, nel 2009. In questo film il regista racconta una storia avvolta nel mistero, dato che l’identità di Vivian Maier è venuta alla luce postuma, senza che lei potesse ricevere alcun riconoscimento in vita, ma la storia della sua vicenda personale si è rivelata intricata, dolorosa e costellata di interrogativi rimasti inevitabilmente senza risposta.
Finding Vivian Maier è dunque un omaggio alla figura enigmatica di un’artista vissuta nell’ombra della sua grande passione e su questo filo rosso si è pure sviluppata tutta l’esposizione ottimamente curata tra le mura del Magazzino delle Idee a Trieste, che continua a stupirci con mostre interessanti e mai banali.
Articolo di Giulia Polloni