In questi giorni Lorenzo Mattotti è il protagonista indiscusso di Villa Manin e Casa Cavazzini.
Villa Manin ospiterà ancora per qualche giorno, fino al 19 marzo, Mattotti – Sconfini (di cui vi abbiamo già parlato qui), una celebrazione della carriera di un Mattotti internazionale, capace di rivolgersi ad un pubblico globale e di ottenere anche risultati e riconoscimenti. Questo Mattotti qua:
Pittore, illustratore, autore, viaggiatore, Lorenzo Mattotti (Brescia 1954) è un artista eclettico, difficile da classificare.
Curioso esploratore e sperimentatore di tecniche differenti, fin dagli anni Settanta passa con agilità dagli albi a fumetti – tradotti in tutto il mondo – alle illustrazioni per i classici della letteratura, quali Pinocchio di Carlo Collodi e Padiglione sulle dune di Robert Louis Stevenson; dalla creazione di manifesti per importanti festival come Cannes, agli interventi per quotidiani e riviste internazionali – tra cui Le Monde, The New Yorker, Süddeutsche Zeitung, La Repubblica – oltre alle collaborazioni con numerosi artisti quali Lou Reed, Wong Kar-wai, Steven Soderbergh e Michelangelo Antonioni.
L’esposizione “Mattotti. Primi Lavori” è un’altra cosa. Dopo esserci tolti i vestiti eleganti e le pellicce necessari per visitare “Mattotti – Sconfini” a Villa Manin ci siamo messi la felpa con il cappuccio e le scarpe da ginnastica, per entrare a Casa Cavazzini. Le opere sono quelle di un giovane Lorenzo, negli anni della sua formazione:
La mostra di Udine offre una panoramica sulla produzione iniziale di Mattotti, incentrata sullo sguardo di un illustratore giovane entusiasta di poter cogliere e descrivere (con una narrazione ironica) quello che aveva intorno: i concerti perché forte era l’interesse per la musica, gli eventi sociali cui l’artista partecipava, ma anche l’emarginazione sociale e la malattia mentale. Udine, piccola città di provincia, aveva la stessa importanza di una grande città per Mattotti che anche qui poteva vivere esperienze fondamentali per la sua formazione di persona e di artista.
Tra le opere spiccano i riferimenti a Udine, agli anni della scuola, ai concerti, agli eventi culturali di una piccola città di provincia.
Durante la preparazione della mostra, abbiamo avuto l’occasione di fare qualche domanda a Mattotti:
Cos’è cambiato tra il Mattotti di ieri e quello di oggi?
Sono cambiati l’entusiasmo e l’energia, quello di sicuro.A quel tempo c’era un’energia incredibile, avevo un’energia incredibile, non mi faceva paura nulla, potevo disegnare per giorni interi per una storia. Non c’erano ostacoli, adesso disegno ogni tanto, ma poi mi metto a dormire. Diciamo che ho un altro tipo di ritmo di lavoro e nonostante questo c’è sempre la ricerca, quella per fortuna è rimasta intatta, la voglia di ricercare sempre qualcosa che non ho tra le mani.
È stato importante l’aver intrapreso la sua formazione in un centro piccolo come Udine?
Importantissimo, essendo la mia vita mi ha influenzato in tutto il mio lavoro, è strettamente collegata anche alla mia quotidianità e alle mie giornate. Non ho mai avuto l’idea che in provincia non si potessero fare delle cose, da giovane dove vivevo mi sembrava naturale farle e girare, poter disegnare quello che vedevo nella vita quotidiana o comunque disegnare anche i miei sogni e le mie influenze, eravamo sempre influenzati anche dall’esterno, la musica era internazionale, musica rock, il fumetto era comunque un linguaggio internazionale; anche se c’erano tre riviste erano comunque fumetti disegnati da disegnatori americani, sud americani, francesi. Per cui diciamo che la cultura internazionale ce l’avevi e nello stesso tempo a Udine avevi il tempo per poter disegnare. Ci si trovava tra amici e si creava l’ambiente. Avendo altri fratelli che suonavano e facevano gli attori c’era sempre comunque un ambiente creativo, non mi sono mai fatto questo problema, anzi credo che in provincia avendo meno distrazioni si è più tentati di crearsi il proprio mondo anche se c’è la calma e la tranquillità. C’è più la possibilità di poter creare e disegnare, di inventarsi i propri mondi, io lo dico sempre, per fare fumetti bisogna, forse, proprio vivere in provincia e avere il tempo per riflettere. Entrare nelle storie, entrare nel ritmo delle storie e per tutto questo c’è bisogno di molta concentrazione. Vedo che a Parigi è estremamente difficile potersi concentrare, si è continuamente stimolati da tremila cose, c’è la sensazione che tutto si consumi da un giorno all’altro, non hai il senso che quello che fai possa riempire il tuo tempo, una dimensione estremamente stancante e non trovo che sia così stimolante per la creatività. Quando ci sono 300 persone che fanno il tuo lavoro, ti chiedi perché lo fai. Cosa devi fare? Gli altri fanno già tutto molto meglio di te e provi un senso di non importanza.
Che consigli darebbe a un giovane che vuole intraprendere la carriera di fumettista?
Questo è un lavoro che si fa perché si ha bisogno di farlo interiormente, se hai un fuoco dentro che hai voglia di far uscire, che ti spinge a farlo. Allora si giustifica il fatto di fare fumetti perché comunque devi affrontare diverse realtà. Ci sono tanti altri ragazzi come te che lo vogliono fare, c’è una concorrenza enorme, parlo del mondo in generale. Per cui devi veramente avere la voglia di affrontarlo questo lavoro, non lo consiglio e non lo consiglierei a nessuno perchè non è un mestiere come il dottore che a un certo punto sai come si fanno le cose, ogni volta te lo devi inventare. Il consiglio è di vedere quello che hanno fatto gli altri, vedere che c’è un sacco di energia, un sacco di lavoro dietro.
Mi ricordo che quando ero ragazzino avevano intervistato un disegnatore alla televisione e gli avevano chiesto “ma cosa bisogna fare per fare il disegnatore?” non mi ricordo chi fosse ma lui rispose “disegnare, disegnare e disegnare” mi è rimasto impresso nella testa, probabilmente avevo sui 15 anni. Bisogna disegnare e imparare a esprimersi.
Se a Parigi ci sono molti input che possono distrarre, questo non potrebbe succedere ovunque nell’era del digitale?
Adesso ancora di più. Allo stesso tempo il digitale – proprio anche in provincia – vi aiuta tantissimo ad avere rapporti internazionali. Il problema che noi avevamo era che quando facevamo un disegno non c’era neanche il fax, dovevamo portarlo in redazione, farlo vedere e aspettare lì che ti dicessero sì o no. Per fare un’illustrazione bisogna fare uno schizzo, portarlo, e per quello poi si viveva a Milano o Roma, perché gli editori erano tutti lì. Se io facevo uno schizzo per un editore dovevo avere il tempo per andare a fare vedere lo schizzo e se andava bene tornare a casa e riportarlo dopo due giorni, adesso è chiaro, scansioni uno schizzo, lo mandi, dicono che va bene, scansioni l’originale oppure lo fai direttamente al computer e a posto. Le relazioni di lavoro sono cambiate completamente. Avete questo potenziale in più, però trovo che quello che io ho trovato in provincia sia proprio il tempo. Il tempo della riflessione, il tempo di concentrarmi, di disegnare, e non avere questa sensazione che quello che stai facendo in provincia prende un valore più importante. Hai la sensazione che stai veramente creando qualcosa di importante per te, per il mondo, ecc. Questo aiuta, se vivi in un’ enorme città, sì, certo, c’è lo stimolo che è altissimo e devi darti da fare però hai anche sempre la sensazione che il giorno dopo è consumato, bruciato e viene fuori un altro che lo fa e allora dici “perché l’ho fatto?”. Hai la sensazione di comunicare molto di meno. Questo è il grosso problema.
Possiamo dire che l’esposizione di Casa Cavazzini sia un flashback rispetto a Sconfini. Come consiglierebbe al pubblico di interagire con queste due mostre? Con che ordine secondo lei è meglio procedere?
Certo, mi hanno offerto questa possibilità ed è stato un grande piacere per me perché è un periodo molto importante. Forse è meglio vedere prima Villa Manin, impregnarsi la mente così e poi andare a vedere da dove viene quello che c’è a Villa Manin. Di fatto qua ci sono le radici, di quello che poi è stato.
Durante la sua giovinezza descrive quello che aveva attorno, come i concerti, gli spettacoli teatrali e gli eventi sociali. In una piccola città come Udine quanto è importante l’esistenza di questi eventi?
È importantissimo, perché io utilizzavo il disegno per assorbire quello che c’era attorno a me, disegnare una faccia di qualcuno, un viso, un vestito, vuol dire cercare, analizzare la realtà che mi stava attorno. Non certamente per elaborare delle tesi. Un disegnatore deve anche esprimersi. Mi nutrivo di quello che c’era attorno a me e non capisco questo fatto che i giovani per far fumetti pensano che bisogni imitare lo stile manga. Gli autori di manga vengono dalla tradizione e dalla cultura giapponese e non hanno cercato di imitare gli italiani, hanno studiato i grandi maestri italiani e li hanno reinterpretati alla loro maniera. Tutto quello che vediamo lo reinterpretiamo e dobbiamo trovare la nostra maniera, abbiamo una cultura pittorica e dell’immagine enorme che tutti ci invidiano e non capisco questo fatto di dimenticarla.
La nostra forza dev’essere la capacità di conoscere le nostre radici, la nostra cultura ed esprimerla in maniera internazionale. È quello che io, ma non solo io, ho tentato di fare. Quando disegno le mie radici mi ispiro all’arte italiana, la metafisica, il rinascimento ma anche le strade, le case, la luce di Udine, quella del Friuli Venezia Giulia, di Venezia e del Veneto. Ci sono caratteristiche che non ci sono in altri posti. Quando vai a vivere in un’altra città, vai in America, Parigi o altro, ti accorgi che il cielo non è lo stesso, che la luce non è la stessa, che i rumori e le voci non sono gli stessi. Vuol dire che questa è la cultura, questa particolarità è quello che abbiamo attorno e di cui non ci rendiamo conto.
A Villa Manin la stanza centrale dà molta importanza alla storia di Hansel e Gretel, ricreando a livello scenografico un percorso che dalla foresta all’esterno della stanza permette di addentrarsi all’interno, nella storia. Quale potrebbe essere l’opera in cui addentrarsi a Casa Cavazzini?
Non saprei perché l’esposizione è organizzata come un laboratorio. Mettere nei tavoli i disegni e le tavole. Perché mentre disegni hai questa dimensione, molto intima e forse è proprio il concentrarsi sul lavoro quotidiano entrando nel laboratorio, pensando che su ogni tavola ci sono ore di lavoro, l’energia, la voglia di sperimentare, come nei quaderni esposti tramite video in cui vengono sfogliati. Il mio studio è pieno di queste cose. Quando siamo andati a rivedere tutto ciò è venuta fuori una vita passata, come guardare un album di fotografie: ti viene in mente tutto. La maggior parte di queste storie non sono mai state pubblicate, su questo bisogna riflettere. Quando c’è la passione non ti ferma niente. Ok non mi hanno pubblicato questo, ma non mi fermo, voglio imparare come e cosa bisogna fare, questo fatto di disegnare anche senza essere legato alla pubblicazione. Certo c’è il bisogno assoluto di essere pubblicati perché inizi a imparare e vedere il tuo lavoro in maniera distaccata. Però testimonia una continua energia che non si ferma. È proprio per il fatto di aver disegnato senza aver pubblicato, che ho continuato il mio lavoro, anche perché in parallelo io ho sempre continuato a disegnare anche se, come testimonia Villa Manin, ci sono un sacco di lavori che ho fatto per me stesso, che non ho fatto per un giornale o altro. Questa mostra testimonia un punto estremamente importante: il disegnare per un proprio bisogno personale.
intervista a cura di Alessandra Conte
La mostra MATTOTTI. Primi lavori è prodotta dal Comune di Udine con l’ERPaC.
curatrice Giovanna Durì
co-curatrice Vania Gransinigh
Per informazioni visitare Mattotti. Primi Lavori
dal 25 febbraio al 4 giugno 2017
CASA CAVAZZINI
Orario invernale (1° ottobre – 30 aprile): da martedì a domenica, 10.30 – 17.00
Orario estivo (1° maggio – 30 settembre): da martedì a domenica, 10.30 – 19.00
Chiuso il lunedì
Via Cavour, 14 – 33100 Udine
Tel. +39 0432 1273772
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