Questa 14esima edizione di ArtVerona per i più esperti è stata #backtoitaly, per tutti gli altri una vera scoperta degli artisti italiani post Arte Povera, cronicamente assenti dal mercato internazionale e dai nostri bagagli culturali. I 150 espositori erano perciò tutti italiani, compresi alcuni galleristi nostrani emigrati all’estero riuniti nella categoria “Grand Tour”; unica eccezione la nuova sezione “Focus on” dedicata a un paese ospite, quest’anno la Lituania.
Che la più giovane del quartetto di fiere italiane (Arte Fiera è del 1974, Artissima del 1994 e il Miart del 1995) stia pian piano acquisendo autorevolezza lo testimonia la presenza di 35 nuovi espositori rispetto all’edizione 2017. Non solo maggior quantità ma anche miglior qualità: “alcune volte in questi anni mi sono ritrovato a constatare il contrario” ha affermato durante una talk il direttore di Artribune, Massimiliano Tonelli, “ma in questa edizione di ArtVerona il livello degli espositori e delle opere proposte è davvero notevole”.
Merito anche della curatela di Adriana Polveroni, che per il suo secondo mandato ha proposto una riflessione sul tema dell’Utopia, inteso come capacità di prefigurare ed evocare nuovi scenari. Questa tematica è stata declinata soprattutto negli eventi collaterali come la collettiva Chi Utopia mangia le mele, a cura di Polveroni e Gabriele Tosi, che apre per la prima volta all’arte contemporanea la settecentesca ex Dogana di Terra (Verona, 12 ottobre – 2 dicembre).
La kermesse scaligera ha due polmoni: un padiglione dedicato ad artisti storicizzati del dopoguerra e uno per nuove proposte del contemporaneo, a differenza di altre fiere che tendono a privilegiare i primi rispetto alle sperimentazioni. Girando tra le pareti di compensato si comprende il perché di questa scelta dei più: se nel padiglione moderno la sensazione è stata quella di sfogliare un rassicurante libro di storia dell’arte, quello contemporaneo era un vortice di proposte in cui l’unica bussola è il proprio giudizio. Perciò rimettiamo al vostro giudizio una gallery con alcune proposte:
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Dopo qualche ora in fiera si rischia di essere attanagliati dal senso di soffocamento tipico del centro commerciale, specialmente se ci si imbatte in troppe persone che fanno acquisti disinvolti. Per questo ArtVerona è venuta in soccorso di noi non-collezionisti con due sezioni coraggiose se non addirittura anti-commerciali: Free Stage, una piattaforma dedicata ai giovani artisti senza galleria e i9 – spazi indipendenti, che ospita gratuitamente in fiera 14 realtà no profit.
Per la sezione i9 – spazi indipendenti il curatore Cristiano Seganfreddo ha scelto realtà giovani e coraggiose, dal Carso alla Sicilia, con una sproporzione di presenze da Milano che ne rispecchia però il ruolo sempre più assoluto di capitale della cultura. Il premio per il miglior spazio indipendente è andato ai ragazzi de Il Colorificio di Milano, che hanno portato in fiera una performance di Marco Giordano (Torino, 1988): l’artista ha percorso in macchina la città parlando al megafono e distribuendo volantini per riflettere sul contemporaneo impulso a condividere ciò che un tempo era considerato privato.
Da segnalare anche The View from Lucania, un’organizzazione che non ha scelto una sede specifica, ma ha deciso di raccontare fotograficamente il Sud Italia attraverso un progetto editoriale, il Sudario. Ad ArtVerona ha presentato l’opera TerraMostra: una crema di bellezza composta con le polveri rosse provenienti dall’ILVA di Taranto, utopia di un mondo in cui gli scarti industriali migliorano la vita anziché distruggerla.
EventoCollaterale FESTIVAL VERONETTA
Se neanche la chiacchierata con questi giovani vulcanici fosse bastata a curare il male da shopping artistico, si può provare con una passeggiata a Veronetta, la zona di Verona più multiculturale e interessante. Nei giorni della fiera il quartiere è stato invaso da un piccolo esercito formato da 3 artisti mid-careeer e 13 giovanissimi provenienti dalle Accademie, ciascuno affidato ad uno spazio: da uno di studio di architettura ad un’African shop, dal baretto alla moda al ristorante srilankese.
“Le collaborazioni che hanno funzionato meglio” ci spiega il curatore Christian Caliandro “sono quelle in cui l’opera si è fusa con la location fino ad annullare il confine tra arte e vita quotidiana”. Come è successo nel salone di parrucchieri C’era una volta in cui l’artista mid-career Elena Bellantoni (Vibo Valentia, 1975) ha presentato Brain wash: una performance partecipativa in cui il visitatore-cliente riceveva un massaggio alla testa mentre ascoltava un messaggio registrato e infine doveva rispondere alla domanda “che cosa ti condiziona?”. Alla fine della tre giorni, una delle parrucchiere si era così immedesimata nell’opera da continuare a riproporla personalmente anche quando l’artista era assente.
Una situazione simile si è verificata alla stamperia Officina Pixel per la quale Marco Raparelli (Roma, 1975) ha realizzato delle illustrazioni digitali da stampare su magliette acquistabili dal pubblico.
“I disegni di Marco funzionano benissimo perché sono semplici ma di grande impatto” spiega il proprietario “e così abbiamo deciso di continuare la collaborazione anche dopo la conclusione del progetto”.
C’è poi chi ha saputo far tesoro di questo progetto e diventarne un collezionista come la carismatica proprietaria del negozio chiamato ufficialmente Business Venture e conosciuto da tutti come Mama Shop, che ormai da tre anni conserva gelosamente le opere realizzate per le sue caratteristiche vetrine.
Le vetrine del negozio, sulle quali sia le vetrofanie realizzate da Roxy in the box nel 2017, che le fotografie di Andrea Bonetti del 2018.
Il titolo del progetto è La terza notte di quiete: allude al film di Valerio Zurlini del 1972 e alla sua atmosfera indefinita e indefinibile, molto lontana dalla spettacolarità. È qui infatti, nella semplicità e genuinità di questi esercizi commerciali, che si può creare quella relazione fruttuosa tra artisti contemporanei e residenti che le grandi mostre come Documenta e Manifesta tentano di innescare da anni con alterne fortune. What’s art for? si chiedeva la talk inaugurale di ArtVerona; la risposta forse va cercata tra i «negozietti etnici» che rendono Veronetta un luogo magico, utopico.
articolo di Elisabetta Zerbinatti