Carlo De Biaggio è un bassista e arrangiatore friulano di 25 anni (’94) che vive e lavora a Brooklyn, NY. Formatosi al prestigioso Berklee College of Music di Boston, Carlo ha completato la propria formazione seguendo i seminari/studiando privatamente con musicisti di fama internazionale quali Ron Carter, Eddie Gomez, John Clayton, John Patitucci, Victor Wooten, Anthony Jackson, Jeff Berlin, Alain Caron, Marco Panascia e Leland Sklar. Oggi collabora a diversi progetti musicali che spaziano tra il pop e l’alternative rock, il jazz e l’elettronica: Triple Tea, Ajna, Ed From Space, 2 birds Band, Niu Raza, Shane Weisman, Marc Smith, David Marks, Ajda Stina Turek, Ignite Church NYC, Mulberry Music Group – gruppi che hanno ricevuto menzioni da testate importanti come CBS Local, SF Local, All bout Jazz, JazzIT, ecc. e con i quali ha avuto la fortuna di esibirsi sui palchi dell’Outside Lands a San Francisco e del Toronto Jazz Festival in Canada. Considerata la sua giovane età, le sue origini (Carlo è cresciuto a Biauzzo di Codroipo, una piccola frazione della provincia di Udine che conta meno di mille abitanti) e la sua formazione internazionale, abbiamo pensato potesse essere istruttivo rivolgergli alcune domande, soprattutto per cercare di capire quanto è grande la distanza che separa i due mondi: l’America e l’Italia.
- Innanzitutto una domanda di carattere generale: come ti trovi a New York e come procede la tua carriera musicale?
Da uno cresciuto in un piccolo paese nel cuore della campagna friulana, credo che New York sia un posto fantastico. È possibile assistere all’interazione di un numero incredibile di culture differenti (specialmente qui a Brooklyn dove mi trovo ora), e come spesso si sente dire, è davvero un agglomerato urbano che non dorme mai. Ci si sposta prevalentemente con i treni che sono attivi 24/7 (unica città al mondo ad offrire questo servizio) e praticamente MAI vuoti: oserei dire una città sotto steroidi. Le prime volte che scendevo in strada, appena trasferito, mi sembrava di essere in un film. Penso che sia uno di quei posti che se non piacciono, possono veramente renderti la vita un inferno… quindi, direi che mi trovo bene, altrimenti non potrei viverci. Per quanto riguarda la carriera artistica, decisamente un luogo adatto: dal punto di vista dell’ispirazione (costantemente stimolata dall’incrocio di innumerevoli culture, dalla presenza dei grandi del presente e dei fantasmi dei giganti del passato), delle opportunità (che sono maggiori in numero data la notevole dimensione della scena), e soprattutto della crescita personale, tanto a livello musicale quanto a livello umano. Qui ho avuto la fortuna di imparare che il mestiere del musicista non si svolge solamente con lo strumento in mano, ma anche essendo alla mano. È una sfida continua e di certo molto dura, ma non la scambierei per nient’altro. Per essere più specifico, in quanto bassista freelance, collaboro e suono in diversi progetti, gruppi ed organizzazioni (circa una dozzina in totale) nell’area di NY e dintorni. Il mio lavoro spazia dal suonare dal vivo o in studio all’arrangiamento, e richiede qualche nozione a livello di produzione musicale. Di tempo libero ne ho ben poco ma le soddisfazioni non mancano: negli ultimi mesi ho partecipato alla produzione di tre album con tre differenti artisti che verranno rilasciati prossimamente.
- La carriera del musicista è senza dubbio uno delle più difficili. Quali prospettive vedi davanti a te in America?
Sono pienamente d’accordo: non è facile. Come ho detto prima, è una sfida costante. Essere un musicista è un processo in costante sviluppo che non vede mai un arrivo o una fine. Il campo musicale è così vasto che una vita intera non basterebbe ad assimilare tutte le competenze necessarie ad essere esperto in “tutto”, ammesso che ciò abbia un qualche senso. È un concetto che si può applicare a qualsiasi forma d’arte, e ci mette costantemente in discussione con noi stessi: come professionisti, come persone, come individui nella società. Bellissimo ma allo stesso tempo umiliante. Per quanto riguarda le mie prospettive qui in America, sinceramente non posso fare altro che dare del mio meglio. Ogni volta che mi ritrovo a collaborare con gruppi o artisti, in studio o sul palco, cerco sempre di dare più del 100%, cercando di non perdere mai l’attenzione e di rendere il tutto più facile agli altri. Come diceva Bill Evans in una sua famosa intervista: “se uno continua a lavorare alla musica con tutte le proprie energie, anche se rinchiuso dentro un armadio, verrà ascoltato prima o poi fuori da questo armadio, se ci mette tutta la sua forza”. Ovviamente al giorno d’oggi, tra social media e piattaforme digitali le carte in tavola sono un po’ cambiate, ma il concetto base non cambia ed è ancora valido. Praticamente è quello che sto facendo qui: suonare il basso elettrico ed il contrabbasso per diversi artisti, accompagnarli accordo per accordo nel loro cammino, aiutarli a crescere e supportarli fino al prossimo livello.
- Parlando della tua terra d’origine, il Friuli, che cosa ti manca di più?
Dal mio punto di vista, sono le persone a costituire i luoghi. Quindi sì, la nostalgia del mio paese, delle rive del Tagliamento, della cucina tipica e delle sbiciclettate nei campi c’è. Ma mai quanto la nostalgia della famiglia e degli amici. Penso a loro ogni giorno (anche se non ci si sente poi così spesso), e farlo mi aiuta a non dimenticare chi io sia realmente. Il Friuli è come inglobato in loro. Ovviamente sono assolutamente consapevole della mia fortuna/opportunità, ma a discapito di chi afferma il contrario, andarsene non è mai una scelta facile, tantomeno vile. Questa esperienza me lo sta insegnando ogni giorno.
- Ovviamente la tua formazione sarebbe stata completamente diversa se non fossi partito per New York. Rimanendo a casa, che cosa ti saresti perso di più?
La prima cosa che mi viene in mente: se non fossi partito sicuramente parlerei l’inglese un po’ meno bene! Poi l’esperienza del college: incontrare a Boston musicisti provenienti da tutte le parti del mondo con cui condividere lo stesso sogno è senz’altro qualcosa di indescrivibile. Poi i pro e i contro in cui ci si imbatte trasferendosi così lontano da casa ad appena vent’anni. Le prime soddisfazioni, i primi ostacoli professionali in un Paese che non è il tuo… Sinceramente non so bene che cosa mi sarei “perso” rimanendo in Italia, dipende sempre dal punto di vista con cui guardi le cose. Forse mi sarebbero capitate opportunità altrettanto meravigliose, forse no. Quel che è certo è che il mio percorso sarebbe stato completamente diverso. Migliore, peggiore; chi può dirlo? Sicuramente un’altra cosa.
- I grandi nomi della scena musicale newyorchese, Wynton Marsalis, Wayne Shorter, John Patitucci, Mark Guiliana, ecc. continuano ad essere una fonte di stimolo per te o dopo un po’ ci si abitua come tutte le cose?
Domanda interessante! Personalmente, trovarsi di fronte ai propri idoli e vederli esprimere la propria arte a pochi metri di distanza è qualcosa a cui difficilmente ci si abitua. Una cosa che ho notato qui a New York è che la quantità di musicisti di altissimo livello è così elevata che quasi si annulla. Da un lato, questa cosa rende la competizione spietata, ma dall’altro… Immagina una situazione di questo tipo, dopo una jam-session o un concerto, dove la maggioranza delle persone nella stanza è del settore: tutti tenderanno ad essere molto gentili ed affabili perché c’è questo sentimento generale di “non so mai a chi potrei trovarmi davanti, nel dubbio rispetto”, ed è una cosa bellissima! Ho avuto l’onore di assistere a concerti di musicisti jazz di fama internazionale come Jeff Ballard, Mark Turner, Dave Holland, Aaron Parks, Eric Harland, Ben Wendel e molti altri. Dopo la performance molti di loro rimanevano in sala a chiacchierare con il pubblico, in modo molto naturale e magari con un bicchiere di vino in mano. Secondo me ciò è incredibile, di certo non accade ovunque. Dunque, per rispondere alla tua domanda, è questo ciò a cui non ci si abitua: la possibilità di interagire veramente con i propri idoli.
- Per quanto riguarda il ruolo delle istituzioni, senti una grande differenza tra l’America e l’Italia? La musica e l’arte in generale vengono sostenute in modo diverso?
Da quello che sono riuscito ad osservare in questi anni, italiani ed americani gestiscono le cose in modo piuttosto diverso. Parlando in generale, loro hanno un approccio alla vita molto più pragmatico, diretto e giovane. Regna sicuramente la regola del libero mercato, e a livello di relazioni interpersonali le persone tendono a rapportarsi in modo leggermente diverso da quelle italiane (a primo impatto c’è più compostezza e “razionalità”). Per quanto riguarda invece la musica e l’arte, sono rimasto piacevolmente colpito dal modo in cui viene rispettata la figura dell’artista, maggiormente rispetto all’Italia. Nel nostro paese si sente spesso parlare di enti artistici ai quali vengono tagliati i fondi, cosa che qui in America non ho avuto occasione di notare più di tanto. Ciò mi fa riflettere, perché personalmente trovo scoraggiante che la figura di un musicista venga rispettata meno nella culla dell’opera che in un paese dove la storia, a confronto, è praticamente inesistente. Ovviamente è capitato anche qui che qualcuno mi abbia posto la fatidica domanda: “e di lavoro cosa fai?”. Ciononostante, per ciò che pertiene all’arte, ritengo che l’apertura mentale sia maggiore negli Stati Uniti. Per quanto riguarda le istituzioni, invece, posso dire di aver avuto la grandissima fortuna di frequentare una scuola di musica piuttosto prestigiosa, quindi le infrastrutture, i materiali didattici e i servizi non sono mai venuti a mancare, in una qualità, inoltre, che non mi sarei mai aspettato. Ma questa è solo la mia esperienza personale, per cui non fa molto testo.
- La “fuga di cervelli” è un fenomeno di cui si parla molto in Italia, ma non si è mai fatto abbastanza per porvi un freno. Nel tuo campo, credi ci sia bisogno di fare qualcosa di più per i giovani?
Credo che il tema della così chiamata “fuga di cervelli” sia molto delicato, e ne ho sentite di tutti i colori in merito. Sinceramente non so nemmeno se io appartenga o meno a questa categoria, dal momento che ho lasciato l’Italia perché la scuola stessa, offrendomi una borsa di studio, mi ha dato l’opportunità di farlo. Non ritengo quindi di essere “scappato” da un ambiente ostile o non meritevole, ma ho semplicemente colto l’occasione al balzo ed accettato questa sfida che tuttora mi piace così tanto. Credo che il nostro territorio offra comunque una scena composta da musicisti di altissimo livello che stimo nel profondo e senza i quali non avrei mai potuto arrivare dove sono. Alla fine la mia formazione è iniziata proprio in Friuli, ed io non posso fare altro che prenderne atto, continuare a raccoglierne i frutti, e cerca di proporre agli ascoltatori una realizzazione fresca di quella che è una sintesi tra due terre così diverse. Non è dunque il talento a mancare nelle nostre zone, di quello ce n’è parecchio! È più l’aiuto dall’alto che difetta. Ritengo infatti sia fondamentale almeno tentare di fare qualcosa in più per i giovani che vorrebbero intraprendere questo tipo di carriera in Italia, invece che reciderne le gambe sul nascere. Lo Stato, invece di tagliare i fondi, dovrebbe decisamente distribuirne di più alle scuole, ai programmi e agli enti artistici in generale. Incentivare invece che abbattere. Sono solo uno tra i tantissimi a pensarlo ed affermarlo. Mi sembra inutile dire che se in Italia ci fossero dei programmi didattici musicali anche lontanamente paragonabili o aggiornati (nel senso di essere in sintonia coi tempi che corrono) a quelli che ho avuto la fortuna di frequentare, non me ne sarei andato. Ma evidentemente le priorità per coloro che hanno il potere decisionale sono altre. E questa è a mio avviso una grande sconfitta per un paese come l’Italia, un paese talmente ammirato per l’arte che alla fine, paradossalmente, si ritrova a darla per scontata.
Intervista a cura di Elvis Zoppolato