“La mia arte non è un oggetto, è una vita”
Tehching Hsieh rappresenta Taiwan alla 57 Esposizione Internazionale dell’Arte.
Per la prima volta alla Biennale di Venezia, Tehching Hsieh, artista taiwanese di base a New York, rappresenta Taiwan nelle Prigioni di Palazzo Ducale, con “Doing Time”, una mostra personale organizzata dal Taipei Fine Arts Museum e curata da Adrian Heathfield.
La location è più che mai interessante per un artista che ha come tema centrale quello della libertà; libertà come concetto appreso sulla propria pelle attraverso performance che sfidano i limiti umani con costrizioni autoimposte e durate estenuanti. Le più famose sono cinque “One year performance” eseguite negli anni ’80, due di esse “Time Clock Piece” e “Outdoor Piece” sono presenti per la prima volta insieme nell’attuale mostra. Nella prima il giovane artista mise nel suo studio un orologio timbracartellini e si sottopose all’usurante pratica di timbrarlo allo scoccare dell’ora, ad ogni ora del giorno per un intero anno. Ad ogni timbratura Hsieh si scattava una foto che poi ha riunito in un unico video della durata di 6 minuti, in cui il suo volto viene man mano scavato dalla mancanza di sonno. Un modo per conoscere il tempo, farne esperienza nei suoi aspetti più estremi per capirne appieno il dono e quindi imparare a non esserne schiavi ma a fare tempo.
L’anno successivo si spostò quindi sull’altra dimensione quella dello spazio: in “Outdoor”, come suggerisce il titolo, Hsiesh sceglie di vivere per 365 giorni all’aperto: -Non entrerò in edifici, metropolitane, treni, macchine, aerei, barche, grotte, tende- scrive nel comunicato che precedette la performance. Unica eccezione fu il giorno in cui reagì alle minacce di alcuni teppisti e venne arrestato per una notte. La sua libertà di girovagare senza limiti di tempo e spazio aveva un caro prezzo: il degrado fisico, l’essere vulnerabile, continuamente esposto agli agenti atmosferici e alla cattiveria umana.
-L’instabilità, la precarietà, le migrazioni, il desiderio di essere in un luogo a cui si sente di appartenere, la vita di coloro che non hanno niente, la nostra relazione con gli elementi, l’accelerazione e la morte sono tutti temi terribilmente brucianti nella nostra attualità- fa notare il curatore. Al tempo Hsieh era un misconosciuto immigrato clandestino appena sbarcato in America che svolgeva le sue performance quasi in solitaria ed è quindi come se le avesse rivolte ad un pubblico futuro, che avrebbe saputo ascoltare. Questa stupefacente certezza, che non può che provenire da una profonda coscienza dell’autenticità del proprio lavoro, lo ha spinto a raccogliere meticolosamente oggetti, fotografie e documenti dell’epoca. Ed è questo che noi oggi troviamo in mostra: una serie di reperti la cui presenza fisica ha una carica potente proprio in quanto tracce di un’arte che si fonde con la vita di cui ogni aspetto è vissuto fino in fondo, con una radicalità e una purezza che hanno davvero pochi eguali.
Non a caso Marina Abramović, presente all’Open Talk inaugurale, lo chiama maestro e riprende l’affermazione di Hsieh che, a chi gli chiede cosa stia facendo adesso, risponde: ‘Sto facendo vita’: -È un’ affermazione bellissima- dice la Abramović -quando la si fa con la sua consapevolezza non c’è altro da aggiungere-.
Articolo di Elisabetta Zerbinatti
13 Maggio-26 Novembre 2017
martedì-domenica h 10-18
Palazzo delle Prigioni
Castello 4209, San Marco, Venezia